in

La violenza politica in Italia: dalla guerra del brigantaggio al fascismo

La violenza politica in Italia: dalla guerra del brigantaggio al fascismo - Bagolinoweb.it

Il tema della violenza politica in Italia appare come un filo rosso che attraversa la storia del paese, legandosi indissolubilmente a eventi drammatici e conflitti sociali. Dai tumultuosi eventi della guerra del brigantaggio fino ai cruenti “anni di piombo”, la narrazione della violenza si intreccia con il fascismo, rivelando le sue radici e l’impatto duraturo sulla società italiana. Attraverso le pagine del lavoro di Breda e Caretti, possiamo esplorare quanto la violenza politica fosse intrinsecamente legata al periodo del Ventennio, nonostante il regime mussoliniano presentasse caratteristiche peculiari rispetto ad altri totalitarismi europei.

La violenza come metodo politico

La violenza politica in Italia non è un fenomeno isolato, ma si è manifestata in diverse epoche storiche con modalità e intenzioni differenti. Il periodo dal 1921 al 1924 è emblematico, con la figura di Giacomo Matteotti, un deputato che ha rappresentato la resistenza all’affermarsi del fascismo. I brutali attacchi subiti da Matteotti, culminati nel suo rapimento e omicidio, rappresentano un capitolo drammatico della storia italiana, in cui la violenza divenne uno strumento di silenzio e repressione. Matteotti, leader politico di grande prestigio, fu aggredito più volte, mostrando l’atteggiamento violento dello squadrismo fascista nei confronti degli oppositori.

Questi eventi non accaddero in segreto; al contrario, la stampa dell’epoca, sia italiana che estera, riportava ampiamente le violenze perpetrate. La consapevolezza pubblica delle azioni fasciste non impedì tuttavia l’ascesa della dittatura. La società italiana, anziché opporsi al regime, sembrava assuefarsi alla brutalità del fascismo, con una mancanza di mobilitazione efficace contro il crescente potere di Mussolini.

Fascismo e consenso: un’equazione complessa

Il rapporto tra fascismo e consenso è una questione affascinante e complessa. Nonostante il regime mussoliniano si fondasse su una violenta soppressione degli oppositori, il consenso popolare non si espresse sempre attraverso una adesione ideologica attiva. Il fascismo, in effetti, si è presentato come un “totalitarismo sui generis”, in cui la monarchia e la Chiesa cattolica mantennero alcuni dei loro poteri, rendendo la situazione italiana unica rispetto ad altri regimi totalitari.

Ci si chiede, allora, su quali basi si fondava il consenso degli italiani. Se in Germania il nazismo si legava a una ripresa economica post-crisi, in Italia il disorientamento e la mancanza di una chiara alternativa al regime fascista giocarono un ruolo fondamentale. Questo sostegno popolare si rivelò tanto ambivalente quanto complesso. La violenza usata dai fascisti, piuttosto che essere vista come un elemento di repulsione, divenne parte della costruzione del consenso. La storica Giulia Albanese ha osservato come la genesi violenta del fascismo fungesse da mezzo per consolidare il potere del regime.

Il caso di Giacomo Matteotti: testimonianza del potere della violenza

Il brutale omicidio di Giacomo Matteotti rimane un simbolo potente non solo della ferocia del regime fascista ma anche della complicità e dell’indifferenza di una parte della società italiana. Esso rappresenta un punto di non ritorno nella storia della violenza politica in Italia, evidenziando come le istituzioni e i cittadini stessi fossero incapaci di fermare l’ondata di repressione.

La sua uccisione è diventata una sorta di cartina tornasole della moralità pubblica, mostrando come il Paese avesse interiorizzato l’idea che l’omicidio di un avversario politico fosse accettabile. Tra le riflessioni importanti di studiosi come George Mosse, vi è quella relativa alla “brutalizzazione della politica”, un fenomeno che permeava l’Europa, ma che in Italia si manifestava attraverso forme più specifiche. La violenza, che in altri contesti portava a una reazione di rifiuto, in Italia si tradusse in un conformismo servile.

Cultura della violenza e conformismo politico

La dimensione culturale della violenza politica è cruciale per comprendere il contesto italiano del tempo. I processi di acculturazione politica e la fragilità della cultura dei diritti civili erano evidenti e permettevano a Mussolini di utilizzare la violenza come strumento di governo. L’assenza di una solida base democratica e di una coscienza civica matura contribuirono a rendere possibile l’adozione di metodi brutali nei confronti degli avversari.

Il conformismo servile, descritto con parole che richiamano a una tradizione antropologica, si rivelò come un elemento strutturale all’interno della società italiana. La debolezza dei diritti civili, unita a una giovane idea di nazione, fece sì che il regime potesse prosperare senza un’adeguata resistenza. Le pagine di Breda e Caretti riflettono su come, nonostante gli anni passati, il ricordo di Matteotti e la sua tragedia rimangano emblematici del percorso storico dell’Italia, suggerendo che le cicatrici lasciate dalla violenza politica possano continuare a influenzare la società contemporanea.